Lying out there like a killer in the sun
Hey I know it's late we can make it if we run
B. Springsteen (da Thunder Road)
E’ strano. E’ come un rivolo d’acqua che mi scivola lungo la fronte. No, non acqua. Miele. Un lento scorrere, ma stranamente fresco, in quest’arsura soffocante. La macchia opaca davanti ai miei occhi si tinge di rosso quando l’impasto di sangue, sudore e polvere li raggiunge. Soffoco. La carne brucia. Non vedo niente. Solo ombre. La camicia sembra arroventata, pesante, e l’aria è come fuoco. Sibila fra i denti e raspa in gola. Respiro a fatica. E’ l’unico rumore il mio respiro. Quest’unico, ingombrante suono affannoso e poche ombre. Queste le mie uniche percezioni. Qualcosa di nero risalta informe nella luce accecante. Le gambe non le sento. Le gambe. Ora ricordo! Ricordo le gambe, la piega grottesca, da pupazzo, delle mie gambe sotto di me quando ho concluso il volo, sbalzato dalla jeep sulla roccia. Un dolore intenso, come una lancia di metallo che si conficcasse nelle mie carni. Un dolore assurdo, accecante alla schiena. Ora non sento nulla. Non sento le gambe. Sembra che il tempo si sia fermato. Sopra di me il cielo pare farsi liquido, ondeggia e le ore passano. Interminabili. Cerco di spostarmi sul fianco e poi di rialzarmi. E’ inutile. Cado di lato, ma non ho la forza di tirarmi su. E mi manca un appoggio. La spalla sinistra sanguina, ma stranamente senza dolore. In verità non provo alcun dolore se non alla testa e una sensazione di generale indolenzimento; un formicolio, anche. E tanta debolezza. Anche strisciare non mi riesce. Ho perso troppo sangue. Ondate di nausea mi assalgono mentre ancora vedo la ruota che si stacca dalla macchina e rotola lontano da me, la jeep che improvvisamente affonda nel terreno e io che vengo sbalzato in avanti. Ripenso a quello che le dicevo poche ore prima mentre, alla guida di quella macchina maledetta, la portavo nel mezzo del deserto del Mojave. Lei, come sempre, era silenziosa. Non parlava e guardava dritto davanti a sé. Si, la cosa mi aveva sempre infastidito. Tanto il silenzio quanto il fatto che guardasse solo avanti a sé. Era il suo modo di attraversare la vita, così, senza guardarsi attorno, senza interesse. Ricordo ancora quando, durante il viaggio di nozze on the road che avevo organizzato proprio qui nel Sud Ovest, facendo un volo dall’altra parte del mondo per farle conoscere un luogo dell’anima, più che fisico, il teatro epico in cui si mossero Kerouac e Kit Carson, Steinbeck e Springsteen, beh, lei guardava la strada davanti i suoi occhi. Non le rocce rosse che le scorrevano accanto nello Utah, non i saguari che apparivano come giganti in agguato dietro le curve in Arizona, non i Joshua trees che parevano spettrali spaventapasseri nella California meridionale. Guardava la strada, la sabbia, il vento e ci vedeva solo strada, sabbia, vento. Banalmente più interessata alla meta che al viaggio. Più che disattenta, disincantata. Ecco, questa la vera inconciliabilità fra noi. Per lei le cose sono sempre state solo cose, mentre io riesco a soffiare lo spirito negli oggetti, a dare un senso agli eventi e un’anima ai luoghi. Quella luna di miele doveva essere un viaggio iniziatico. Ma per lei l’America era Manhattan. E’ la differenza che passa fra la poesia e la prosa. Io sono il tipo che guarda dal finestrino laterale. Ma certo non è per questo che ho deciso di ucciderla.
“Ed eccoci qua – dissi - , a Sud, nella calda, desolata e bruciata landa della California meridionale, lungo la strada per l’ Arizona: ecco il regno del condor californiano”.
“Questi uccelli ti affascinano, vero?” domandò lei. Una delle sue stupide domande che fungevano da tentativo di commento alle mie frasi per impedire che si tramutassero in monologhi. “Sono spettacolari” risposi, mentre la jeep procedeva a balzi sulla terra rocciosa di un sentiero ignoto alle mappe per naturalisti. Certo che sono spettacolari. Più di tre metri di apertura alare, capaci di planare seguendo le correnti da oltre un chilometro e mezzo di altezza e scendere in cerchi concentrici su una carogna. Un monumento biologico all’opportunismo. Come te, mia cara, avrei potuto dire. Ma la risparmiai. Da tempo vigeva un altro stile fra noi. C’era stata la stagione drammatica dei grandi litigi, ma ora no, ora si teneva un civilissimo basso profilo.
Lei non rispose. Era bella. Nonostante il caldo che ci stava avvizzendo da più di due ore, aveva ancora un aspetto fresco, con i capelli corvini raccolti sulla nuca e trattenuti da una fascia color panna. Molto adatta, pensai.
Un balzo più brusco degli altri. Un suono metallico e il cerchione del clacson mi cadde in grembo, quindi sul pavimento della macchina, infine rotolò sotto il sedile di lei. “Per piacere, attento a come come guidi!”
In segreto ha sempre pensato che io sia un poveraccio, lo so. Forse questa è una delle ragioni per cui è stata così affascinata da quell’uomo. Il suo charme fra il genuinamente rude e il melenso affettato, la sua prodigalità disordinata, le sue attenzioni esagerate, la sua passionalità travolgente. Un uomo determinato, pratico, che non si perde in chiacchiere, che non guarda dal finestrino laterale. Di certo più adatto a lei. Eppure ha sposato me. Del resto, lui era già sposato. Anche solo per questo avrebbe meritato di morire. Ma non è per questo che ho deciso di ucciderla.
Accesi lo stereo. C’era Bruce Springsteen, autore al cui populismo romantico e retorico l’ avevo introdotta molti anni fa, proprio ai tempi della sua squallida relazione. Di colpo, il volante vibrò nelle mie mani e staccai il piede dall’acceleratore mentre la macchina partì in discesa lungo un terreno particolarmente roccioso e polveroso. Ripresi il controllo.
“Fa un caldo terribile” si lamentò. “non avremmo potuto andare in montagna e fare un pic nic dove ci sono gli alberi e un po’ di ombra?”
“Certo che avremmo potuto” le dissi mentre la guardavo dare una lunga sorsata dalla borraccia “ma volevo che tu vedessi questi uccelli: è una visione che non volevo condividere con nessun altro”. All’idea della condivisione non replicò. Le avevo sempre rimproverato una mancanza di condivisione e di complicità. Mi offrì da bere, ma io rifiutai con un gesto secco della mano. “Guarda il cielo” le dissi, e lei, obbediente, guardò in alto.
“Ho fame” affermò col suo solito tono stizzito, quasi di rimprovero. “Mangeremo tra breve” le dissi “ Se mangiamo ora ci verrà ancora più sete”. Al ricordo dell’acqua bevve un’altra sorsata. E’ sempre stata vittima della suggestione. Suppongo che quell’uomo lo abbia capito subito, istintivamente. E forse anche Rod Zerilli, il rivenditore d’auto usate che mi ha rifilato questa jeep e che le fa la corte da un anno, da quando siamo venuti a vivere da questa parte dell’oceano per rifarci una vita, dopo i ben noti fatti. San Francisco è una gran città e ci mette d’accordo. Io amo l’atmosfera libertaria e le vestigia del flower power, lei i negozi e i panorami sulla baia. Io bado all’anima, lei al corpo.
“Ecco!” dissi, ingranando una marcia inferiore e frenando fino a fermarmi. I suoi occhi cominciarono a vagare per il cielo azzurro, senza nubi. Poi lo vide. Era una piccola forma nera verso mezzogiorno. Un condor!
Presi il binocolo e lo misi a fuoco sulla forma scura. Soltanto un uccello vola in quel modo, le immense ali spiegate e curvate appena, volteggiando come se fosse sostenuto da un filo invisibile fissato nell’azzurro. Improvvisamente la bestia virò verso il basso. Rimisi in moto la jeep e la voce roca del boss tuonò cause tramps like us, baby, we were born to run. Spensi l’autoradio. Cominciai a procedure lentamente e le passai il binocolo. “Osservalo”, le dissi, e lei si portò le lenti agli occhi. Il condor, ormai, era atterrato. Fermai la jeep e le feci cenno di scendere. “Prendi la borraccia” dissi.”Da questo punto in poi proseguiamo a piedi”. Lei farfugliò qualcosa a cui non diedi retta. Comunque, timorosa, mi seguì su un terreno irregolare sbranato dal sole. Ci fermammo dietro un ammasso di rocce a goderci la vista.
“Non ci saranno i serpenti a sonagli”? disse. Ma un attimo dopo esclamò “”E’ immenso!”. Mi sono sempre emozionato per i suoi entusiasmi, perché erano veramente rari; anzi, era solita spegnere i miei con richiami alla bruta realtà. Era così che la poesia imparò lentamente ad arrendersi alla prosa.
Era un condor immenso. Si stava nutrendo di una carcassa di antilope della California riconoscibile solo per le corna, perché era già stata svuotata dall’interno lasciando solo uno scheletro luccicante e pochi pezzi di carne che si stavano cuocendo al sole.
“Fanno sempre così” dissi. “Lacerano col becco la carne all’altezza dell’ombelico o del retto e portano fuori le interiora, come ad apparecchiare la tavola!”
“Che cosa terribile!” disse lei. E poi continuò dicendo “Mi sento male, la testa, mi sembra …” e non finì la frase che il binocolo le cadde dalle mani e lei si accasciò lentamente scivolando lungo le rocce. “No, mia cara, - sogghignai - non è l’impressione per il fiero pasto del condor. E’ la ketamina che ho messo nella tua borraccia. Più i barbiturici, ovviamente. Ce n’è da uccidere dieci sgualdrine come te”. Lei mi fissava con occhi vitrei e la faccia che sembrava quella di una statua di cera. “Capisci perché, vero?- continuai – Siamo qui per allontanarci da un buco nero che si è risucchiato il meglio di noi. Ma non si fugge da se stessi. Un’ombra ci mangia mentre fingiamo normalità. Abbiamo coltivato il sogno di una nuova vita, una terra promessa, una terra di opportunità. E’stata dura, ma per me eri come quella della canzone a cui si chiede di saltare su per scappare da una “città piena di perdenti”. Ricordi?” e qui intonai a bassa voce All the redemption I can offer, girl, is beneath this dirty hood. Cantavo! Stavo spiegando ad una condannata a morte le motivazioni della sentenza e cantavo! Forse perché trovavo straordinariamente appagante il senso di potere che provavo in quel momento. Per la prima volta potevo sfogarmi senza che lei lasciasse il campo offesa. O forse il parlare per metafore era finalmente la rivalsa della poesia sulla prosa.
Continuai: “Ma tu, invece dell’umiltà del colpevole hai continuato a manifestare cinicamente l’arroganza dell’innocente offesa.”
Qui ebbi come la sensazione che, pur nella paralisi della muscolatura facciale, i suoi occhi esprimessero un’emozione che mi piace pensare di dispiacere e pentimento. Ma probabilmente fu solo un’impressione. “Davanti ai miei tentativi di comprendere il senso di tutto quanto è stato, hai sempre mostrato fastidio, perdendo l’occasione di mostrare il tuo interesse per noi. Molto meglio far finta di niente e guardare avanti. Mai voltarsi indietro, mai guardare di lato. Solo avanti. Il resto, indifferenza, freddezza, silenzi. Quasi dovessi pagare il prezzo dei tuoi torti.”
Ecco. Per questo stava morendo! In più, per il fatto che, nonostante disinteresse e dinscanto, fosse perfettamente in grado di cogliere nel contesto ciò che poteva servirle. Mi preparavo al finale a sorpresa: “Dovevamo ripartire da zero lontano da tutto e tutti! Morire per rinascere, ricordi? Bene, sembra che questa sia realmente “la terra delle opportunità” per te. Infatti, so di te e di Rod! So che giovedì sei stata con lui. So che dici che hai bisogno di sentirti amata, perché io sarei “distante”! Io.. Vedi, amore, è per farti vedere che sbagli che ti ho preparato una sorpresa, e prevede la ketamina!” Lei biascicò qualcosa di inintellegibile e poi, come avesse colto, un più chiaro “no!”. “Volevo che vedessi questi uccelli. Sono tuoi parenti. Volevo che vedessi come si nutrono. Il loro becco aguzzo e la tecnica di macellazione, come riescono a disossare le carogne. Tu mi hai trattato così. Ora subirai letteralmente ciò che io ho vissuto in senso figurato”.
Così conclusi il mio discorso ad una donna incapace di cogliere il senso delle metafore.
Da un centinaio di metri di distanza, arrivò il felpato frusciare di una immensa ala contro la terra. Lei guardava con gli occhi sbarrati, l’espressione appannata ma tenuta viva dal terrore. La sua mascella si muoveva, come a voler dire qualcosa. Svenne. Trascinai allora il suo corpo fuori dal riparo delle rocce, mentre sentivo lo sbattere delle ali degli uccelli che prendevano quota dietro di me. Quindi l’ho lasciata lì dove occhi telescopici potessero vederla. Ero eccitato. Notai con soddisfazione che non tremavo. Poi, dopo aver guidato per un breve tratto, mi fermai su un piccolo promontorio roccioso in alto. Puntai il binocolo sui due condor che stavano volando sulla scena che avevo appena lasciato. Volavano in cerchi sempre più stretti, presto raggiunti da un terzo uccello.
Non potei fare a meno di scoppiare a ridere, mentre innestavo la marcia e giravo l’auto verso nord. Ripartì l’autoradio: Oh honey, tramps like us, baby, we were born to run.
Sarebbero passati mesi prima che trovassero le sue ossa. La cosa più importante, a quel punto, era lasciare al più presto quella zona. Perciò spinsi sull’acceleratore. Fu allora che qualcosa di scuro rotolò davanti a me: una ruota!
Rod Zerilli mi ha manomesso il mozzo? Non importa saperlo, ormai. Ora sono qui, immobilizzato nel caldo asfissiante. Mi strappo un pezzo di camicia col coltello che avevo nella sahariana e cerco di asciugare la ferita dolorante alla testa. Poi cerco inutilmente di legarmela intorno alla testa. Ancora tento di strisciare, ma trascino il mio corpo paralizzato solo di qualche centimetro. Poi il dolore mi vince. Il mio cuore comincia a battere irragionevolmente forte, come se possedesse qualche conoscenza segreta. Non lo vedo atterrare, ma giro la testa e lui è lì…., un condor molto grande, a circa cento metri da me. Vedo chiaramente le ali aperte, immense, vellutate. Toccano a terra. Il suo occhio vitreo è puntato su di me. Avanza con passi goffi, pesanti. I suoi artigli nodosi si aggrappano al terreno riarso e arido creando piccoli sbuffi di polvere rossastra. Grido. Grido tanto forte quanto riesco attraverso la mia gola secca. Si ferma.
Resto immobile. Il mio corpo vibra per le pulsazioni del mio cuore e il condor avanza ancora. Ormai sobbalzo al ritmo frenetico che mi batte in petto. Non restano che cinquanta metri fra me e lui. Mi osserva. Non stacca mai quell’inquietante occhio gelido, da animale a sangue freddo, da me. Neanche io smetto di guardarlo. Improvvisamente vedo tutto con estrema chiarezza. Il collo grigio-arancione, grinzoso, il becco biancastro e ricurvo, gli artigli scuri, incredibilmente lunghi. Non ho mai provato un simile terrore!
Un ombra! Ora un’ombra si è mossa fra me e lui. E’ quella di un altro condor. Lo vedo volare sopra di me. Ali immense, nere, con striature grigie. Si abbassa facendo dei lenti archi, sempre più stretti. Sono io il punto focale!
Nel mio orrore cerco disperatamente di ricordare tutte le nozioni che ho imparato sul condor gigante, ma mentre osservo immobile, sgomento, quei cerchi che si restringono e si abbassano, mentre ascolto con i sensi esaltati il fruscio di quelle ali ed il raspare di quegli artigli, una nozione sulla quale persino gli esperti sono in contrasto mi brucia il cervello come un carbone ardente. Nessuno sa se l’uccello aspetta che la sua preda sia completamente morta prima di cominciare a nutrirsi. Nessuno realmente lo sa.
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