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Immagine del redattoreLuigi Corvaglia

Un uomo comune

Aggiornamento: 23 dic 2023


We Won’t Get Fooled Again

The Who


“Che mi venisse un accidenti se mi ricordo come si chiama!”, sbottò lo zoppo, sovrastando per un attimo la voce roca di Tom Waits. Quando mi voltai, colpito dall’inattesa rottura d’atmosfera che questa frase aveva prodotto, lui era ancora inespressivo e guardava fisso il mare increspato di fronte.

“Chi?”, gli feci, notando il buffo contrasto fra la sua urgenza di venire a capo di questa misteriosa cosa e l’immobilità che sembrava averlo colto su quel sedile. Era silenzioso da quando l’orchestra di Waits aveva cominciato ad ondeggiare lentamente e la sua voce da licantropo a blaterare di una ragazza fortunata che aveva perso una borsetta d’alligatore, o qualcosa del genere. Lui abbassò il volume quel tanto da permettere di parlare con un tono normale e, guardandomi, la sua faccia si animò finalmente con quello che ad uno sguardo allenato avrebbe potuto definirsi un sorriso.

“Il sax tenore, amico, il sax tenore”, mi fece, con un’espressione che allora mi sembrò sarcastica, ma che poi mi abituai a considerare naturale. “Sto qui a fissare il mare – continuò – cercando di ricordare chi cavolo fosse a suonare il tenore su Blue Valentines”.

“Frank Vicari”, risposi di getto, con la soddisfazione e il tono di chi, avendo aspettato la tombola per tutta la serata, avesse finalmente sistemato l’ultimo fagiolo sulla sua cartella. Non sembrò contento.

“Sei sicuro?”

“Certo!”. Ora mi guardava perplesso.

“Non era, per caso, Frank Marini?”

“Vicari, assolutamente”, conclusi in modo spiccio e volgendo di nuovo lo sguardo al finestrino.

“Hum, lo appurerò”, disse, e sembrò non dare più peso alla cosa.

Estrasse il disco, soffocando un ululato nella gola di Tom; lo ripose delicatamente nella sua custodia e, solo dopo averlo posato nel portaoggetti, fece manifestare alla livida luce del tramonto un altro “gioiellino”, come li chiamava lui. La piega della sua guancia destra disegnava una sorriso caricaturale che, come in quella figura che mi avevano mostrato in clinica, rendeva i suoi occhi ancora più vivi. Sarà stato il chiarore crepuscolare, sarà stato il silenzio inatteso, ma era inquietante. Solo molto tempo dopo ho acquisito la piena coscienza che quel ghigno era tutt’altro che maligno e che la mia lezioncina sul sassofonista di Waits non aveva affatto provocato il suo disappunto, ma era stata, anzi, ciò che di me fece breccia in lui, conquistandolo definitivamente.


E’ strano che un episodio minimo come questo sia la prima cosa che mi viene in mente pensando allo zoppo. Ancora più strano, forse, che una piccola cosa simile possa avere tanto contribuito a cementare una coppia di individui il cui unico motivo per incontrarsi niente aveva a che fare con la musica, essendo, come ormai tutti sanno, una rapina.

Misteriosi i percorsi della memoria. La cosa che ricordo meno è proprio la rapina. Per una qualche ignota ragione, tendo a conservare gli episodi minori e, di quelli maggiori, i dettagli marginali, lasciando il centro degli eventi a confondersi in una nebbia onirica. I volti li ho scolpiti in mente. Quello della cassiera, ad esempio. O l’espressione dello zoppo. Ma non ricordo le parole che furono pronunciate nell’umido asfissiante di quell’orrendo scatolone prefabbricato. Ricordo che pensai che fosse assurdo che ad una trappola simile fosse stata concessa la licenza e lo feci nella consapevolezza che era ancora più anomalo, in una situazione come quella, soffermarsi su questo tipo di considerazioni. Evidentemente, il motivo della mia attrazione per le incongruenze e il grottesco risiede proprio nel fatto che la mia mente ne è una delle più pure espressioni. E’ solita, infatti, intrattenermi con elucubrazioni fuori luogo.

Probabilmente è per questo che ricordo soprattutto gli elementi secondari di una scena, o, per lo meno, quelli che la gente definisce tali. “Lei si concentra talmente sugli alberi – mi disse quel tipo odioso nel suo camice lindo – che non riesce a vedere la foresta”. “E voi – risposi io, sortendo l’effetto di spegnergli quell’insulso sorrisetto da saputello – siete talmente concentrati a guardare i disturbi che non vedete più gli uomini”. Un motto ad effetto che da allora è entrato nel mio repertorio di frasi fatte, svolgendo, posso dirlo, una onorata carriera. Comunque, pare, ma non ci credo troppo, che la cosa abbia a che fare con il lobo frontale del cervello che lavorava troppo o troppo poco, non ricordo.

Certo è che neppure lo zoppo doveva essere molto in sintonia con l’idea che generalmente si ha di un pensare lineare e adeguato al contesto. Come definire, infatti, l’espressione fra lo scocciato e il divertito che mi rivolse quando, entrati in quel supermercato per turisti ormai vuoto, fummo accolti dalla stessa banale musichetta che era stata oggetto delle nostre ironie pochi giorni prima durante uno di quegli appostamenti di fronte al mare? Gli risposi con un risolino nervoso mentre con la mano cercavo la mia fonte di sicurezza pret-a-porter, ossia il calcio gelido e quadrettato della pistola che mi raffreddava il sudore del palmo.

Questa roba – aveva detto lui, seduto al volante – non ha senso neppure nella sala d’attesa di un dentista”. Si, non è naturale. Due tizi che stanno per commettere un crimine, il primo vero crimine della loro vita, non possono stare lì a disquisire sulla qualità della musica che passa la radio. Del resto, non era naturale neppure una coppia di criminali costituita da un intellettuale nichilista con velleità da critico musicale ed un musicista fallito che cita le molecole antidepressive con la stessa perizia con cui snocciola le formazioni delle rock bands degli anni ’70. Così, orami coinvolto dalla piega surreale che la cosa aveva assunto, e anche per dissimulare una di quelle ondate di tensione che mi coglievano a cadenza irregolare durante la fase preparatoria del colpo, detti inizio ad uno sproloquio sul concetto di “musica discreta” (proprio il giorno prima avevo letto un articolo in proposito su “Rock Magazine”) e dissi che, si, nello studio di un dentista avrebbe avuto un senso.

“O in un aeroporto”, ammise lui, citando Brian Eno. Non avevamo pensato ad un supermercato.

Bè, non so se sia stato per mettere al più presto fine a quel supplizio fatto di musica dozzinale, afa, puzza di pesce e una cassiera grassa, praticamente deforme, ma lo zoppo estrasse la sua pistola con un gesto cinematografico, veloce e per niente goffo, molto prima di quanto convenuto. Non disse nulla, eppure, come d’incanto, tutta quella gente distratta, intenta a riordinare stancamente, si bloccò quasi fosse stata oggetto di un esperimento telepatico e si accorse di noi. Mi colse un dejà-vu.

In quell’attimo di sospensione, l’unico segno dello scorrere del tempo fu il gracchiante ritmo in 4/4 proveniente dagli altoparlanti sistemati sulle nostre teste. Sembrava che qualcuno avesse improvvisamente alzato il volume. Durò poco, giusto il tempo che il respiro riprendesse il suo compito con un fremito e la tizia deforme emettesse un urlo. Breve. Poi delle buffe scosse sussultorie. Mi fece venire alla mente il primo disperato vagito di un neonato che prende dimestichezza con l’aria. La banale musichetta tornò ad essere uno sfondo e la figura fu completamente occupata dal ridicolo ballo di quell’essere che sembrava un orso fuggito dai cartoni animati e attraversato da una corrente d’alta tensione. Percepii un senso di potere mai provato prima. La mia pistola restava nella cintola. Non so quanto durò il tutto. Nello scombinato archivio della mia memoria s’è trovato posto solo per l’obesità sussultante della donna e per i movimenti disinvolti del mio complice, che rivedo a rallentatore, come fossi stato lo spettatore di un film attraverso un ottundimento febbrile.


Non ricordo da dove fosse uscito quel tizio, non ricordo cosa facessero gli altri impiegati, non so neppure se qualcuno si stesse occupando di svuotare le casse per riempire i sacchi neri dell’immondizia che ci eravamo portati appresso. Mi rivedo dall’esterno, quasi dall’alto - e questa “inquadratura” è frutto del lavoro di sceneggiatura dei fatti che ho realizzato nei mesi pensando a quel giorno – che sorrido. Pensavo a quel che siamo. Noi uomini, intendo. Spesso mi ero ritrovato a riflettere su quanto assurdo fosse il nostro vagare per il mondo portandoci appresso un universo personale fatto di pensieri, ricordi, emozioni, storie, speranze, sfiorando milioni di altri universi senza farli mai entrare realmente in contatto. Che senso ha essere padroni di un universo se non possiamo farci entrare gli altri? Ognuno naufrago sulla sua isoletta a guardare l’orizzonte, ognuno convinto d’essere sull’isola giusta. Il più delle volte, i ponti che stendiamo sono temporanei e strumentali all’arricchimento della nostra isola più che motivati dall’intento di creare realmente un terreno condiviso e stabile. Ponteggi malfermi costruiti per meglio dividere e poi, di contro, maremoti, inaspettate collisioni fra pianeti, catastrofi che rendono il paesaggio irriconoscibile per sempre. Io non conoscevo nessuna delle persone lì dentro, eppure, da quel giorno, la mia vita, come la loro, non sarebbe più stata la stessa. La cosa meno dotata di senso è il fatto che degli altri ci accorgiamo per gli elementi meno centrali del loro esistere, per i dati sensibili più periferici, temporanei e marginali, come quando ci voltiamo a guardare le rotondità sode della commessa che allestisce la vetrina. Mi fu risposto, una volta, sempre in clinica, che questo istinto aveva a che fare con la sopravvivenza della specie.

Ora, per esempio, tutti si erano accorti dello zoppo perché aveva una pistola. Un perfetto marchingegno di acciaio azzurrastro e freddo. Bello, indubbiamente, ma un oggetto, in fondo, semplice, unidimensionale, niente a che vedere con la complessità di un essere umano che, pure, guardiamo distrattamente per strada. Immagino che anche questa improvvisa attenzione avesse a che fare con la sopravvivenza. Del resto, senza pistola, nessuno, in una folla, si sarebbe accorto di quest’uomo, nonostante il lieve claudicare che era all’origine del nomignolo, invero eccessivo, che gli avevano affibbiato ai tempi della band. I soprannomi un po’ offensivi andavano di moda, davano un ché di maledetto. Il “cantante” dei Sex Pistols non era forse Johnny “Rotten”? Bah. Roba da adolescenti falsamente bohemien e decadenti. Del resto, la cultura di riferimento della band in cui militava lo zoppo era quanto di più lontano dal punk. Cosa può suonare una masnada di capelloni che si sono dati nome “Southern Comfort”, se non una miscela alcolica di blues, boogie-woogie e honky tonk venata di country? La musica più demodé e reazionaria che esista. Ho sempre trovato strano l’amore per queste sonorità in un intellettuale rivoluzionario come lo zoppo, uno, poi, che ama il jazz. “E’ vitalismo, immediatezza, sudore”, commentò una volta in uno dei suoi scoppi retorici. Parlava poco e, quando lo faceva, dava l’impressione di essere momentaneamente rientrato in possesso di quell’ involucro terreno che generalmente restava abbandonato come un burattino nell’angolo meno in luce. Si animava il tempo di una sentenza telegrafica di questo tipo, poi la mente partiva per altri, più gratificanti lidi riconsegnandoci il bel tenebroso meditabondo che aveva in noia quasi tutto e, soprattutto, tutti. Questa miscela di cultura onnivora, linguaggio sentenziante e sarcastico e preponderante silenzio gli donava un indubbio fascino. Ma chi non lo frequentasse non sarebbe rimasto colpito dalla sua figura. Era un tipo comune, di media corporatura e media altezza, la sua conformazione, nel complesso, si mostrava armoniosa e, nonostante avesse da poco superato la quarantina, non ancora imbolsito come tanti suoi coetanei, me incluso. Era abbastanza piacevole d’aspetto, insomma, per chi si fosse soffermato a guardarlo, ma non abbastanza da richiamare un attenzione tale da permettere che questa attività contemplativa avesse luogo. E l’abbigliamento dimesso non aiutava granché. Questo, a meno che non si fosse avuta la ventura di incrociare i suoi occhi. Gli occhi del mio amico erano magnetici, più grandi del normale, circondati da lunghe ciglia quasi femminili, talmente espressivi che gli conferivano una aura di grande profondità. Quando ti guardava accigliato dal di sopra delle lenti dei suoi sottili occhiali, era difficile non sentirsi a disagio. Le labbra, poi, grandi e carnose da far invidia ad una ragazza. Furono proprio queste ultime a colpire di più Violetta. Così mi ha detto di recente. Le labbra e i silenzi. Evidentemente io parlavo troppo. O forse parlavo troppo di cose poco interessanti, così preso dalle mie elucubrazioni, dalle note a piè di pagina che la mia mente elabora e stende ad ogni momento. Una donna pratica non può restare impigliata in una condizione simile. Questo ha fatto sì che la perdessi e che io e lo zoppo arrivassimo a condividere un’altra cosa, oltre alla militanza nella stessa band. Anche lì ci eravamo dati la staffetta. In definitiva, i nostri universi si erano sfiorati in un paio di occasioni, eppure non ci eravamo mai conosciuti sul serio. Nell’uno e nell’altro caso, comunque, eravamo ragazzi. Quelli all’opera qui, in questo fermo immagine in uno scatolone metallico rovente, con una marchingegno azzurrastro e freddo a brillare nell’afa ed uno strano orso in forma umana a sussultare, erano invece due uomini, due universi ormai molto differenti precipitati dalla vita nello stesso punto e alla stessa ora. Collisioni. Imprevedibili collisioni. Del resto, ognuno di noi è il frutto di un improbabile incontro, un bing-bang che ci ha dato origine e che aveva un livello di possibilità infinitesimale. Eppure eccoci qui. “Purtroppo”, diceva lo zoppo.


Quando il colpo esplose rimbombando tremendamente, al punto da far tremare gli oggetti sugli scaffali, la scena ebbe un’accelerata. D’improvviso, la moviola cominciò a correre e mi ridestai, tutti i rumori tornarono in primo piano, urla, singhiozzi strozzati, pacchi che si ammucchiavano, metalli che stridevano. Tutti si erano tuffati, ognuno col suo mondo, per terra. Una galassia prossima al collasso. Mi ritrovai con la pistola in pugno, una 38 senza tamburo (e, quindi, inutile), col fiato sospeso, i muscoli tesi allo spasimo, il cuore che pulsava in gola e gli occhi nervosi che facevano la scansione dello spazio. Il sangue dello zoppo stava disegnando a terra una faccia beffarda. Gli strozzini non lo avrebbero più tormentato. A vedere il rivolo più denso coagularsi nell’avvallamento vicino al mio piede sinistro, fermato dalla diga naturale costituita da uno di quei bottoncini di gomma che rendono ruvidi i pavimenti neri di questi posti – questi “non luoghi”, li chiamava lui -, mi ipnotizzai nuovamente e rimasi immobile, cosciente del pericolo di trovarmi sotto il tiro di un cecchino appostato da qualche parte dietro agli scaffali. Per lo stesso motivo, credo, per cui assumo sostanze che si chiamano “olanzapina” e “fluvoxamina”, la mia concentrazione cadde su quel fluido che avanzava conquistando lo spazio fino alla gomma della mia scarpa, attratto e atterrito allo steso tempo, ma immobile. Mi tornò alla mente una delle citazioni colte di quell’uomo che ora era disteso davanti a me, apparendo molto più alto di quanto lo avessi mai visto. Era di Thoreau, l’autore sul quale aveva discusso la sua tesi in letteratura americana, e diceva così: “dite a Shakespeare di aspettare, perché sono occupato con questa goccia di rugiada”. Mi colpì subito perché mi sembrava coincidere perfettamente col mio approccio mentale al mondo e alla vita, in barba a qualunque graduatoria prestabilita dalla maggioranza delle cose su cui porre attenzione. Lo zoppo citava spesso Thoreau, ma anche Whitman, Armand, un certo McKay, di cui ignoro tutto, Tucker e quel pazzo di Stirner. Ecco, i nomi li ricordo tutti. Come le date, i titoli, i numeri di telefono e le targhe. Stirner. Una delle nostre rare discussioni riguardò appunto quest’ultimo autore, un tizio del quale si divertiva ad estrapolare aforismi, a trascriverli e poi sottoporli all’attenzione degli altri, soprattutto di quelli che sapeva meno pronti ad accoglierli e condividerli. Si divertiva così. A scandalizzare. A me erano sembrati dei deliri della stessa qualità di altri che è possibile ascoltare in quei parcheggi della devianza che usavo frequentare. Tutta quella amoralità esibita! Ma Thoreau, no, lui mi piaceva. Parlava del fatto che, in un mondo ingiusto, se vuoi trovare i giusti devi andarteli a cercare in prigione. Ora, in realtà, io non so che mondo sia il nostro. Non so cosa sia giusto. Non so neppure se esista qualcosa di giusto. Non so cosa mi abbia messo in mano questa pistola. O forse si, ma non so se sia giusto. Questo vale per qualunque azione umana, io credo. Esistono dei criteri oggettivi per definire il concetto di giustizia? Quello che è giusto sulla tua isola, nel tuo universo, è giusto nel mio?

Quando quell’arrogante cantantucolo per il quale avevamo accettato di fare da backing band decise di estromettermi dal mio ruolo di batterista, per esempio, per me quella fu una ingiustizia indiscutibile. Per tutti gli altri no. Un attimo prima della fama. “Come Pete Best, il primo batterista dei Beatles”, sottolineava ridacchiando lo zoppo, che dietro a quella batteria si era seduto prima di me, ma che si era alzato ed aveva incrociato le bacchette per intraprendere un viaggio diverso per le strade laterali della vita, ben prima di trovarsi a correre il rischio di decidere se rinnegare o meno se stesso e la propria musica.

Bè, certo, forse “fama” è una parola grossa. Un solo pezzo divenuto un tormentone estivo, un secondo di successo molto inferiore, due tournè affollate di ragazzine schiamazzanti. Poi, il nulla. Ma, certo, avrei messo da parte qualcosa, non moltissimo, ma avrei investito e magari fatto fruttare. Quell’imbecille sfiatato, ad esempio, nel suo quarto d’ora di celebrità era riuscito a mettere da parte i soldi per acquistare il suo primo supermercato e ora, quindici anni dopo, mi trovavo nel suo sesto punto vendita estivo. Con una pistola in pugno. Ma senza tamburo.


Buffo. Mezz’ora prima ci eravamo “caricati” infilando nello stereo “Won’t get fooled again” degli Who e tirando il volume oltre il possibile. Le casse vibravano. Gli accordi di potenza di Townsend erano distorti oltre misura, le urla di Daltrey stavano lacerando gli altoparlanti e sembrava che Moon stesse picchiando con dei bastoni sulla carrozzeria. Ma quell’intermezzo, quello di sintetizzatore, circolare, ripetuto, snervante, ossessivo come la mia mente, era la colonna sonora adatta di una attesa ansiosa. Ora mi stava tornando in mente, come spesso mi accade con suoni, parole e impulsi che mi si impiantano nel cervello come parassiti. Mi risuonava nella scatola cranica. Era perfetto per quel momento. La batteria di Moon non arrivava mai, anche il vecchio Keith sembrava rimasto senza tamburi.

Fu proprio a proposito degli Who che scrissi per la prima volta allo zoppo. Aveva appena stroncato sulla sua rivista quel gruppo, come si chiamava?, bè, non importa, comunque un gruppo che si rifaceva in maniera spudorata agli Who. Aveva concluso: “sono veramente stufo di questi inglesini che rubano i pantaloni a zampa d’elefante dalla cassa di papà”. Mi aveva strappato un sorriso in una delle mie fasi peggiori. Così gli scrissi. Credo che fosse un po’ prevenuto a causa di Violetta, ma rispose. Iniziò così il nostro epistolario. Mesi dopo ci incontrammo. Si. Credo proprio che sia stato uno dei pochi incontri reali della mia vita. Per il resto, sfioramenti e collisioni. Credo che per lui valesse lo stesso discorso. Era circondato da gente ma era solo. “Lo siamo tutti, in fondo”, diceva. Era stanco anche di Violetta. Non tollerava i suoi silenzi. Strana la vita. Strani gli uomini.


Il secondo colpo ebbe un suono più sordo e sibilò verso il soffitto, forandolo.

“Butta quella pistola! Buttala!”. Urlò qualcuno. Quasi si strozzava. Lo vedevo, ora. Era un ragazzo mingherlino con gli occhi di fuori che sembrava più spaventato di me.

“Buttala! Altrimenti sparo! Mi capisci?!”

Avrà avuto vent’anni o poco più. Ma chi era? Che ci faceva in giro con una pistola più grande di lui? Tremava. Adesso teneva la sua Magnum con tutte e due le mani e si appoggiava allo scaffale da dietro il quale era sbucato. Lo scaffale aveva cominciato a sbattere rumorosamente.

“Mi senti?!”

“Ti sento”, dissi, mentre aggrottavo la fronte e lo guardavo dritto negli occhi, il braccio con la pistola parallelo al pavimento e la canna rivolta verso l’orso ballerino.

Chi cavolo è uno così? Perché? Ha un senso? Esiste un disegno che presiede agli incontri e alle collisioni fra gli uomini? Per quale disgraziato caso questo piccolo “Rambo” di provincia si trovava in quel posto proprio quella sera? Probabilmente, pensai, era un poliziotto in borghese. Seppi poi che si trattava di un militare fuori servizio. Si sa, niente è più pericoloso di un giovane fanatico con la passione delle armi.

“Sai chi sono i veri criminali?”, mi aveva chiesto, retoricamente, una volta lo zoppo. “Quelli da temere realmente – continuò, come si suol dire, fra il serio ed il faceto - sono quei ragazzini in servizio militare effettivo. Ne ho un sacro terrore. Immagina. Quando i loro coetanei stanno ancora studiando o sono alla ricerca di un primo lavoro, generalmente sotto pagato, loro possono già tornare al paesello sfoggiando una macchina di grossa cilindrata che testimonia lo status acquisito e simboleggia, anche quando sono in borghese, la loro potenza. Ne consegue una guida incosciente, senza la quale la rappresentazione del mito della virilità non riesce. Se ti vai a leggere le statistiche degli incidenti mortali, noterai che la percentuale di quelli in cui sono coinvolti tipi di questa risma sono ben superiori a quelli che ci si potrebbe aspettare in considerazione della infima fetta di popolazione che essi rappresentano. Fanno, in rapporto, più vittime innocenti questi scarti dell’umanità di qualunque altra categoria di “criminali”, ad esclusione dei terroristi”. Era solito fare discorsi del genere, guardare i dati sotto gli occhi di tutti da una angolazione particolare, rovesciare il senso comune.

Era chiaro che, per me, esagerasse, eppure, in quel frangente, il suo discorso mi tornò a galla con prepotenza dai gorghi della memoria. Stavo guardando negli occhi uno di quei tizi e non aveva una macchina di grossa cilindrata. Aveva una pistola.

“BUTTTALAAA!!”

Come ero arrivato a trovarmi in una situazione di questo genere? Come disse lo zoppo, parafrasando il boss - l’uomo del New Jersey, intendo -, conscio della insana passione che nutrivo per lui, “ho debiti che nessun uomo onesto potrebbe pagare”. Si riferiva alla sua rivista sull’orlo del fallimento, alla libreria già fallita, alla casa che aveva comprato con Violetta, agli usurai ai quali si era rivolto per salvare la libreria. Io ero in una situazione simile. Forse peggiore. Lui, però, aveva una possibilità. Un parente che aveva una piccola casa editrice poteva prestargli dei soldi, almeno quanto bastava per gli usurai, e lui glieli avrebbe restituiti in natura lavorando gratuitamente come redattore ed altre cose simili. Gli facevo notare che la sua condizione era meno drammatica della mia. “No. Mi basta il tempo che ho fatto lo schiavo per gli altri – disse - . Non sono più disposto a cedere un grammo della mia dignità a nessuno. Non voglio dover ringraziare ancora qualcuno perché mi dà il permesso di arricchirlo con ciò che è mio. Lavoro, tempo o talento che sia. Sai che diceva Stirner? Se altri hanno è per colpa nostra. Perché non li derubiamo. La proprietà non è un furto, è un dono. Siamo noi a concederla. Basta vittimismi. Riprendiamoci ciò che è nostro.” Sembrava invasato. Poi aggiunse, enigmaticamente, :“Da oggi, voglio che la mia vita mi assomigli”. Fu così che cominciò a fantasticare di una prima rapina.


“Mi serve un puntista”.

“Cosa?”

“Un puntista. Il tizio che tiene sotto mira tutti i presenti mentre io mi faccio riempire i sacchi”. L’idea mi affascinava e terrorizzava allo stesso tempo. In realtà avevo ben poco da perdere, mi ripeteva lo zoppo. Se andava male, rischiavo di essere fatto fuori in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine, ma, se non correvo questo rischio, ero certo di essere fatto fuori da quelli a cui dovevo il denaro che avevo chiesto per il negozio dei dischi e la clinica. Se fossi restato in vita, comunque, non ne sarebbe valsa la pena. Era sussistenza. “Sopravvivenza a sé stessi”, chiosava, col solito effetto, il mio amico. Se andava bene, però, c’erano soldi facili e la fine dei problemi. Per due settimane tentennai. Non dormivo la notte. Poi lui mi disse qual era l’obiettivo designato. Smisi di tentennare. La frase “riprendersi ciò che è proprio” cominciò ad assumere un senso.

“Ok” dissi, “ma io faccio solo questa. Se, come dici, il Sabato sera alle nove lui in persona raccoglie gli incassi di tutti i supermercati nella sede del porticciolo per portarli in cassaforte nella villa sulla scogliera, ci saranno un bel po’ di soldi. Se per il trasporto carica in macchina anche una guardia, basterà agire nel supermercato prima dell’arrivo di questa.”

Solo allora mi confessò che, in realtà, aveva risposto alla mia lettera perché aveva già in mente questo progetto.

“Pensa. E’ a centinaia di km da qui. Nessuno conosce i nostri volti. Ci basterà crescerci la barba e indossare un paio di occhiali neri. La pensione è di fronte. Al mattino, sbarbati e freschi, riconsegniamo la macchina all’agenzia e carichiamo i sacchi sulla macchina della inconsapevole Violetta; la facciamo tornare a casa e noi prendiamo il treno”.

L’attuale situazione non era contemplata.


Chi è un ragazzo con una 44 Magnum? Ascolterà della musica? E quale? Lo zoppo mi diceva “non fidarti mai di tre tipi di persone: i punk cinquantenni, gli amanti del “progressive” e, soprattutto, quelli che non ascoltano musica”. Questo vermiciattolo con in mano una protesi della sua potenza mi teneva sotto mira, ed aveva anche il grilletto facile, ed io stavo a chiedermi se ascoltava della musica? Avrei dovuto alzare i dosaggi quando me lo avevano detto. Sono confuso. Esiste un pianeta che ha maggior diritto di altri di infrangersi sul tuo? Il ragazzo ha sparato allo zoppo senza nessun preavviso. Non è giusto. Ma sarebbe stato più o meno giusto se, invece, fosse stato lo zoppo a sparare al ragazzo, se questi si fosse fatto notare puntandogli la pistola? E, ancora, la vita dello zoppo e quella del ragazzo si equivalgono? Se si, perché? Se no, perché? Non so. L’unica cosa che so è che, ad un certo punto, ho spostato il mio braccio verso il ragazzo che tremava, l’ho alzato ed ho puntato l’arma. Mi sentivo calmo, freddo. La fronte del ragazzo era madida di sudore. Delle gocce gli scorrevano negli occhi. La pelle bianca per la vasocostrizione, le labbra viola. Non riusciva più a tenere quel cannone che gli piroettava davanti in strani e nervosi cerchi. Strano. Ho ricominciato a sentire la musichetta dagli altoparlanti sopra la mia testa. Ho premuto il grilletto. Clic. Poi un’esplosione. Non ho sentito quasi dolore. Ricordo solo il sangue, il soffitto, i neon che giravano, le ombre. Poi le sirene.

In tribunale Violetta era vestita in nero.



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