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Luigi Corvaglia  e le anomalie dell’uomo comune. Recensione del racconto "Un uomo comune"




Recensione di Marco Recchi, pubblicata su "Letteratura-Tradizione", rivista della cattedra di Filosofia Politica de La Sapienza nel 2009

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Luigi Corvaglia  e le anomalie dell’uomo comune

 

Una delle cose che più colpiscono, nella lettura di questo breve racconto di Luigi Corvaglia (Un uomo comune, Vetriolo, 2006, disponibile su www.ilbolerodiravel.org), è il contrasto tra un’idea di “normalità”, cui pare alludere il titolo, e il carattere “anomalo” dell’intera storia. Certo, l’intreccio è piuttosto scarno, senza grandi colpi di scena: due uomini, intorno alla quarantina, si preparano a una rapina in un supermercato, ma, al dunque, non riescono a portarla a termine, uno venendo ucciso e l’altro arrestato. Inoltre, la vicenda non riceve precise collocazioni spaziali né temporali, quasi non fosse situata in un proprio “qui e ora”, e i due protagonisti restano anonimi, quasi non possedessero nomi “propri”. Eppure, essi non sembrano esemplari dell’”uomo medio”, o dell’“uomo qualunque”, bensì figure quantomeno bizzarre. E già il fatto che la narrazione, affidata al rapinatore superstite, assuma la forma di una rammemorazione, svolta alcuni mesi dopo e senza destinatari espliciti, quasi una sorta di “auto-analisi”, può autorizzarci a spostare l’attenzione dal piano delle azioni, empiriche e oggettive, a quello delle motivazioni, psicologiche e soggettive, in cerca dell’angolo prospettico prescelto dall’Autore.

Del resto, essa pare un viaggio nella mente del narratore, che si confronta col tessuto valoriale della società circostante. E tale mente, si nota subito, è arduo definirla “comune”: equivale alle altre, ma non vi somiglia. La distingue l’innata tendenza alle «elucubrazioni fuori luogo», prevalenti nella economia del testo e centrate sul senso della vita, della morte, dell’esistenza, dei rapporti con gli altri. Ma pure la spontanea avversità alle generalizzazioni, che le fa memorizzare, d’ogni situazione, particolari, sfumature, dettagli, che poi “assembla” con paziente opera da «sceneggiatore dei fatti». Rammenta volti, espressioni, nomi, date, titoli, targhe, numeri telefonici, ma non i ragionamenti, specie se consequenziali, lineari. Serba gli episodi minori e, dei maggiori, solo i tratti accessori, «lasciando il centro degli eventi a confondersi in una nebbia onirica»: con una genuina «attrazione per le incongruenze e il grottesco», dei quali è «una delle più pure espressioni», non “fotografa” la realtà, vi aggiunge una gran mole di «note a piè di pagina». Pure il ricordo della rapina le sovviene come un’«“inquadratura” [..] dall’esterno, quasi dall’alto», centrata sull’«obesità sussultante» d’una cassiera e sui «movimenti disinvolti del mio complice, che rivedo a rallentatore, come fossi stato lo spettatore di un film attraverso un ottundimento febbrile». Infine, conscia di tali peculiarità, non crede possano derivarle solo dal «lobo frontale del cervello, che lavorava troppo o troppo poco, non ricordo». Certo, corre spesso il rischio, proverbiale, di dedicarsi talmente agli alberi da non vedere più la foresta. Ma evita quello, non meno grave, di non riuscire più a vedere «gli uomini», pur di guardarne «i disturbi». Perciò, si può attribuirle diversità, magari evidenti, non superiorità. Infatti, «ognuno di noi è il frutto di un improbabile incontro, un big-bang che ci ha dato origine e che aveva un livello di possibilità infinitesimale. Eppure, eccoci qua». Ognuno vive la sua vita in un universo personale di pensieri, avventure, speranze, e «sfiora milioni di altri universi senza farli mai entrare realmente in contatto». Ma, non si tratta di una monadologia leibniziana, di monadi in sé complete, autosufficienti, “senza porte né finestre”. Certo, gli uomini appaiono come dei “naufraghi”, ognuno capitato su un’isola diversa, e convinto di essere l’unico a stare sulla «isola giusta». Ma un costante bisogno comunicativo, un’esigenza morale e sociale, motiva i loro eterni sforzi di «creare un terreno condiviso e stabile», ove cassare gli attuali «ponteggi malfermi, costruiti per meglio dividere, [..] temporanei e strumentali all’arricchimento della nostra isoletta, all’arredamento della nostra cella». Motiva, cioè, i tentativi di opporre vere azioni “pontificali”, alle «imprevedibili collisioni tra isole, catastrofi che rendono il paesaggio irriconoscibile per sempre». Se di “monadologia” si vuole qui parlare, allora, si dovrebbe rovesciarne le attribuzioni, semantiche e valoriali: da positive, come “la soluzione”, a negative, come “un problema”. Infatti, «che senso ha esser padroni di un universo, se non possiamo farci entrare gli altri?».

L’“identikit” dei protagonisti, conferma la sensazione di trovarci di fronte a soggetti atipici, pure come “malavitosi”. Basti dire, che il nostro narratore è «un musicista fallito che cita le molecole antidepressive con la stessa perizia con cui snocciola le formazioni delle rock bands degli anni ‘70», e il suo socio, detto“lo zoppo” benché solo lievemente claudicante, «un intellettuale nichilista con velleità da critico musicale»: non proprio la tipica “banda criminale”. Certo, entrambi sono elementi marginali, periferici, della gerarchia sociale come di quella professionale. Li accomuna la precarietà economica derivatane, la decisione di compiere il loro «primo vero crimine», le più o meno nette tendenze sinistrorse, ma, soprattutto, il «non essere molto in sintonia con l’idea che generalmente si ha del pensare lineare e adeguato al contesto». Inoltre, in principio ad accomunarli fu la giovanile passione musicale, tuttora rimastagli: il loro primo “sfioramento”, quindici anni fa, fu nella band dei “Southern Comfort”, confusi in «una masnada di capelloni» a suonare «la musica più demodé e reazionaria che esista, [..] una miscela alcolica di blues, bolgie-woogie e honky tonk venata di country». In realtà, non vi militarono contemporaneamente, bensì s’alternarono, succedendosi come batteristi, senza potervi restare abbastanza da condividerne la pur breve fama. E un’alternanza analoga, ma invertita, li accomunò in campo amoroso, quando la bella Violetta decise di lasciare il musicista fallito preferendogli l’intellettuale nichilista. Ma ciò non scalfì un’amicizia, che resta oggi «uno dei pochi incontri reali» della loro vita, altrimenti ricca solo di “collisioni” e “sfioramenti”. Certo, si erano persi di vista alcuni anni, ma per poi ritrovarsi in un fitto epistolario. E ora che sono insieme, pronti a rapinare proprio l’ex cantante della vecchia band, che ne trasse i soldi necessari a iniziare una proficua attività imprenditoriale, si “caricano” ascoltando in macchina, a tutto volume, la celebre “Won’t get fooled again” degli Who.

La figura centrale della storia sembra essere «lo zoppo», se non altro in quanto ideatore del piano “criminoso”. Egli appare «un tipo comune, di media corporatura e media altezza», pur «non ancora imbolsito» e di «conformazione, nel complesso, armoniosa». Risulterebbe d’aspetto piacevole, se ci si soffermasse a guardarlo, ma purtroppo non lo è abbastanza «da richiamare un’attenzione tale da permettere che quest’attività contemplativa abbia luogo». Vero, ha occhi «magnetici, più grandi del normale, circondati da lunghe ciglia quasi femminili, talmente espressivi che conferivano un’aura di grande profondità». Ma brillano solo negli attimi in cui egli, divertendosi a scandalizzare l’uditorio con motti ironici, estremi, radicali, spesso stirneriani, pare tornato «temporaneamente in possesso di quell’involucro terreno che generalmente restava abbandonato, come un burattino, nell’angolo meno in luce». E brillii nati da tali «scoppi retorici», imprevedibili, estemporanei, non durano tanto da attirare l’interesse altrui. Né l’“involucro terreno” mostra altre attrattive, tolte le labbra «grandi e carnose da far invidia a una ragazza». Uomo taciturno, dimesso nel vestire quanto «tenebroso e meditabondo», deve l’«indubbio fascino» ai lunghi silenzi, rotti per lo più da laconiche sentenze sarcastiche. Con una «cultura onnivora», spaziante dalle filosofie di Thoreau, Stirner, Whitman, Mc Kay, Armand, Tucker, all’amore per il jazz, che più del punk gli infonde «vitalismo, immediatezza, sudore», sa «guardare dati sotto gli occhi di tutti da un’angolazione particolare», sa «rovesciare il senso comune», grazie a una noia esistenziale che, come un fuoco opaco, arde ogni colore, pure…il “Violetto”. Del resto, sceglie di affrontare le ambasce pecuniarie con una représaille individuelle, anziché impiegandosi presso parenti facoltosi: gravato da «debiti che nessun uomo onesto potrebbe pagare», oppone a problemi economici soluzioni esistenziali. Dopo anni trascorsi a «ringraziare qualcuno perché mi dà il permesso di arricchirlo con ciò che è mio, lavoro, tempo o talento che sia», si è convinto che «se altri hanno è per colpa nostra, che non li derubiamo. La proprietà non è un furto, è un dono [..] siamo noi a concederla». Non sa mutare il passato, ma nemmeno rassegnarsi a ripeterlo, ora che si sente «non più disposto a cedere un grammo della mia dignità a nessuno». Così, deciso che «da oggi, voglio che la mia vita mi assomigli», la scelta è fatta: «basta vittimismi. Riprendiamoci ciò che è nostro». Quando poi, nel supermercato, estrae la pistola «con un gesto cinematografico, veloce e per niente goffo, molto prima di quanto convenuto», riceve subito e da parte di tutti un’attenzione che nessuno gli aveva mai riservato, ma che ora lo conduce al commiato dalla (nuova) vita.                   

La sua morte, o meglio il fragore dello sparo che l’ha ucciso, ha l’effetto immediato di richiamare  il “musicista fallito” da quelle elucubrazioni, che ne fanno un tipo “fuori dal comune”: sotto il tiro di una 44 Magnum, vicino a un cadavere e con in mano una pistola senza tamburo, che un ragazzo, un agente fuori servizio di un corpo di polizia privata, gli urla a gran voce di gettare, egli pensa che…le cose non dovevano andar così. Lo zoppo gli aveva offerto di fare «il puntista, il tizio che tiene sotto mira tutti i presenti mentre io mi faccio riempire i sacchi», e lui, coi creditori alle porte ma senza parenti cui chieder (o non chieder) aiuti, capì che «se andava bene, c’erano soldi facili e la fine dei problemi». Affascinato quanto terrorizzato dall’idea di una rapina, cessò di esitare quando conobbe l’identità della vittima, quando cioè, pure per lui, «la frase “riprendersi ciò che è proprio” cominciò ad assumere un senso». Accettò, per sfuggire una triste «“sopravivenza a sé stessi”», ma chiarì che «io faccio solo questa». E ora, pensa, non se gettare o no la pistola, sua «fonte di sicurezza pret-a-porter», peraltro innocua, e ubbidire a «questo piccolo “Rambo” di provincia» con il «mito della virilità», bensì…«Chi è costui? Perché? Ha un senso? Esiste un disegno che presiede agli incontri e alle collisioni tra gli uomini?». Del resto, aveva imparato a «non fidarsi mai di tre tipi di persone: i vecchi metallari, gli amanti del “progressive” e, soprattutto, quelli che non ascoltano musica». Ma, tale “assiologia musicologica” pare inadeguata alla situazione, poiché «chi è un ragazzo con una 44 Magnum? Ascolterà della musica? E quale?». Intanto, però, quel ragazzo minaccia di sparargli…  

Così, l’esito dell’impresa, e la suspance che ne segna l’epilogo, possono renderla una metafora dei rapporti sociali e interpersonali, aprendo a una riflessione conclusiva. I due protagonisti, che hanno condiviso discreti trascorsi e ora mettono in comune le sorti in un’azione per entrambi “risolutiva”, restano, nondimeno, «due universi ormai molto differenti, precipitati dalla vita nello stesso punto e alla stessa ora». Quasi che uno abbia trovato le risposte che mai avrebbe osato cercare, l’altro abbia cercato quelle che mai avrebbe osato trovare. Cosa, allora, può accomunarli, tra loro e agli altri? Forse, il fatto che nessuno li avesse mai notati, prima che impugnassero l’arma. E poiché è un’arma pure quella che subito dopo li divide, e nel modo più netto, essa pare confondersi con un “valore comune”: «bello, indubbiamente, ma un oggetto, in fondo, semplice, unidimensionale, niente a che vedere con la complessità di un essere umano che, pure, guardiamo distrattamente per strada». Se tale “oggettività” diviene parametro valutativo, gli individui più vari vengono accomunati dal fatto di rifletterla, o meno, così riducendo magari la loro distanza da essa, ma non quella tra di loro: il “valore comune”, rende “comuni” gli uomini che non lo raggiungono, e quindi identifica il soggetto “fuori dal comune”, con quello “sopra la media”.

Non sveliamo la sorte del rapinatore superstite, sempre intento a distendere i mille pensieri che gli annebbiano la mente…annebbiando i mille pensieri che non la distendono. Ma , la sua simpatia per Thoreau, più che per Stirner, e il ricordo di Violetta che «in tribunale era vestita di nero», bastano per immaginarlo a rivivere, nell’ennesima variante, l’eterna storia del pesce piccolo, “accolto” da quello grande.   

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